Riceviamo ben volentieri un articolo per il blog Cronisti scalzi dalla giornalista Luciana Esposito, direttrice di Napolitan, sulle bambine e bambini di Ponticelli.
Da anni seguiamo i suoi coraggiosi articoli, le sue inchieste e la sua capacità di leggere dal di dentro il quartiere Ponticelli, dimenticato da anni dalle istituzioni e lasciato in mano alla camorra. Luciana è davvero una cronista scalza, una giovane donna che ha sfidato la camorra, subendo minacce e aggressioni, perché ha osato raccontare la vita del quartiere e non ha aspettato le notizie per riportarle, ma ha cercato il meccanismo sanguinoso che le produce. La sua ambizione è di “reclutare giovani giornalisti” per allontanarli dalla morsa della criminalità, e qui a Ponticelli, dove vive, ha trovato la sua più compiuta espressione.
I bambini di Ponticelli, periferia est di Napoli
“Tutt' egual song' 'e criature”, recita una canzone di Enzo Avitabile. Uno scugnizzo di Marianella che quando parla di “criature” e periferie lo fa con cognizione di causa.
Il mondo sarebbe più giusto, se questa affermazione fosse vera. Ma non sono tutte uguali 'e criature.
I bambini di Ponticelli non sono uguali a quelli che nascono nelle altre realtà italiane.
E non sono nemmeno uguali a quelli che nascono al Vomero e a Posillipo.
La strada, per i bambini di Ponticelli, non è in salita: è un tunnel buio e pieno di insidie. I bambini di Ponticelli, quelli che crescono giocando tra le sterpaglie dei rioni come il Conocal, il De Gasperi, il Parco Merola, il Lotto 0, il Lotto 10, “le case di Topolino”, imparano fin da subito a destreggiarsi tra “le leggi della strada”.
Quei bambini, quando vedono una pattuglia, corrono ad avvisare “i grandi”. Corrono con occhi colmi di terrore, come se avessero visto “un mostro”. Quei bambini crescono coltivando la viva convinzione che “le guardie” siano nemici acerrimi dai quali difendersi, in quanto unica e palpabile espressione sul territorio di quello “Stato assente” perennemente additato come l’artefice di tutti i mali.
Agli occhi di quei bambini, i buoni diventano cattivi e i cattivi sono buoni.
Quei bambini vivono in un mondo falsato dalle illusorie e millantatrici suggestioni della malavita, fin troppo abile a sovvertire la realtà a proprio vantaggio, sprezzante di violare l’innocente ingenuità che negli occhi di quei bambini viene spazzata via fin dai primi vagiti.
Quei bambini vanno a scuola con le pistole negli zaini, perché durante perquisizioni e controlli “le guardie” lì non vanno a mettere le mani. “I finti cattivi” hanno un senso del pudore che gli vieta di violare il diritto all’infanzia di quei bambini. E “i veri cattivi”, quelli che non hanno né rispetto né pudore, sanno sempre come trarre vantaggio dalle debolezze altrui.
Quando quei bambini crescono, diventano dei “Neet”: un acronimo affrancato ai giovani di età compresa tra i 15 e i 23 anni che non lavorano e non studiano. Ponticelli è il quartiere europeo in cui si registra la percentuale maggiore di “Neet”. A Ponticelli, quei ragazzi, vengono definiti “i buttati”. “Buttati” sulle sedie di un bar, dalla mattina alla sera, a bere birra, fumare spinelli e indirizzare battutine ai passanti. “Buttati” in una realtà isolata e scollegata dal resto del mondo e della città. Dove dal tramonto all’alba passano un treno ogni ora e gli autobus sono un vero e proprio miraggio.
Malgrado il quartiere disti pochi chilometri dal centro di Napoli, per “i buttati” diventa un’impresa ardua anche uscire dalle degradate mura dei rioni in cui vivono, ai margini dei margini della periferia.
Grigi e severi palazzoni costeggiati da strade ad alto scorrimento, impossibili da percorrere a piedi. E poi per andare dove? In un altro rione o nella villa comunale del quartiere: “la vetrina” per antonomasia per i giovani desiderosi di mettersi in mostra nella speranza di essere adescati dai clan, perennemente a caccia di manovalanza giovane e volenterosa.
“I buttati” che non hanno una famiglia vigile alle spalle o semplicemente capace di individuare nel percorso scolastico la preziosa opportunità da cogliere per garantire a un figlio una vita sana, diversa, normale, sembrano condannati a percorrere il sentiero che la malavita spiana, passo dopo passo, nella loro quotidianità. A meno che, la forza di volontà di quei “buttati” non funga dia viatico per uno spiraglio di miglioria. Una folgorazione, un sussulto di raziocinio, utile a imprimere una sterzata a quel destino che appare così scontato.
Eppure, la cronaca contemporanea narra anche un’altra realtà. Diversa e persino più inquietante.
A finire fagocitati dalle grinfie della camorra sono anche moltissimi giovani che inizialmente avevano intrapreso la strada opposta, lavorando o lavoricchiando, per racimolare qualche soldo. E poi, quel sentiero, è sbucato comunque nei meandri della criminalità, gettando quelle giovani vite impietosamente in pasto alla camorra.
Giulio un lavoro ce l’aveva. Faceva il pescivendolo, insieme a suo padre. È morto a 29 anni, ucciso in un agguato voluto per colpire il clan “XX”, quello rifocillato dai suoi amici di sempre, quelli che conosceva e frequentava fin da bambino. Quella sera, quando è rimasto travolto da una pioggia di spari, Giulio era seduto su una panchina, insieme a Vincenzo, un ragazzo di 23 anni con un passato da garzone di macelleria. “Il gabibbo”, questo il soprannome di Vincenzo, in virtù della sua robusta corporatura, da quella sera, vive senza un testicolo. Ma almeno è vivo. Pure se sta in carcere.