“Perché i treni non viaggiano sul mare” (seconda parte)
Mi sentivo, tra una chiamata di lavoro e l’altra, un abile e coraggioso Arturo Bandini: volevo scrivere le mie storie, in altre parole raccontare al mondo (le voci e le vicende) dei personaggi che immaginavo nella mia testa. Anche dopo aver completato il percorso di studio alla Scuola Holden continuai a nutrirmi di letture, proiezioni al cinema, spettacoli teatrali e (quando potevo permettermelo)concerti di musica classica. Volevo alimentare la mia immaginazione e le mie capacità narrative e finire di scrivere un mio romanzo fantastico per ragazzi: il manoscritto cresceva pagina dopo pagina, ero intenzionato a completarlo nel giro di pochi mesi. Con l’invio del mio manoscritto ad alcuni editori, dopo svariati mesi di attesa, cominciarono ad arrivarmi (come da rito) le prime lettere cartacee di rifiuto: non erano moduli standard, ma vere e proprie lettere in cui erano esposti i punti di forza (e le mancanze) del mio manoscritto.
Dopo quei rifiuti, per qualche anno, smisi di scrivere storie fatte e finite, pur continuando a prendere appunti di scrittura nella mia agenda. Intanto, di lavoro in lavoro, ero diventato (seppur precario) commesso di una libreria di catena. E per un appassionato lettore di libri che aspirava a diventare scrittore, poter conoscere nuovi lettori e scoprire sempre più libri da leggere (e da comprare con uno sconto riservato ai dipendenti) è una grande fortuna. Se negli anni della Scuola Holden avevo frequentato fiere di libri e festival di cinema, nel tempo della vita da commesso di libreria stavo riuscendo ad approfondire le conoscenze relative a quegli autori che più mi avevano agitato mente e cuore. Un amico che frequentavo allora, un apprezzato regista del cinema indipendente, mentre conversavamo una sera, in tono quasi profetico, mi rivelò:
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Prima o poi, nonostante i rifiuti ricevuti per il tuo primo libro, tornerai alla scrittura. Non hai mai mollato, e lo sai bene dentro di te. Ne sono certo.
Gianfranco aveva ragione. Andò a finire come lui immaginava.
Dopo aver lasciato Torino per l’improvvisa mancanza di lavoro di quel periodo – in seguito a una breve pausa professionale a Berlino nella primavera del 2008 – alla fine di quell’anno mi trasferii a Roma. Con gran fortuna, presentando solo il mio curriculum a una nuova libreria di catena sulla via Tuscolana, fui assunto per alcuni mesi come commesso in una grande libreria di remainder. Scaduto quel contratto, e per un nuovo inspiegabile colpo di buona sorte, fui chiamato presso un’altra libreria ancora più grande.
Ripresi così subito a lavorare come commesso, perché mi avevano assunto presso quel luogo speciale che era (ed è ancora oggi) la libreria indipendente della stazione ferroviaria di Roma Termini. Tra quegli scaffali, ogni giorno, decine di viaggiatori mi domandavano dove fosse il binario 24: era il luogo in cui si trovavo un ufficio turistico per fornire informazioni ai viaggiatori. E a furia di sentir parlare di quel binario così tante volte elaborai nella mia mente alcuni dialoghi immaginari, frasi di cui mi servii per creare un abbozzo di storia. Poco tempo dopo, in un giorno libero dal lavoro, mi chiusi in casa e mi concentrai a scrivere per ore, di getto, senza pensare ad altro.
La sera, in preda a un paralizzante mal di testa, osservando il soffitto mentre ero a letto, capii che era fatta: avevo scritto il mio primo racconto in prosa, intitolato appunto Binario 24. Quel racconto fu letto e scelto, alcuni giorni dopo, dallo scrittore Francesco Forlani. Francesco dopo averlo apprezzato decise di pubblicarlo sulla rivista letteraria Nazione Indiana: era il 6 agosto 2009 e stavo facendo il mio esordio ufficiale su una delle più importanti riviste letterarie italiane. Accadde per puro caso, nella mia piena inconsapevolezza, e fu un fatto così potente che mi diede coraggio: nella mia testa mi ripetevo a ciclo continuo: scrivi, come diceva Gianfranco il regista a Torino, scrivi e qualcuno ti leggerà. Col tempo, scaduto il mio contratto precario da commesso di libreria, lasciai Roma. Rientrato in Campania, non trovando lavoro presso altre librerie, ripresi a fare il cameriere per diversi mesi.
Seguirono altri lavori più o meno precari: per un po’ di tempo il venditore a domicilio di pane e olio cilentani, in seguito il copywriter esterno per una piccola agenzia pubblicitaria di Napoli. E in quella precarietà professionale, nell’aprile del 2013, scrissi una nuova storia: un mio racconto autobiografico che finì sulle pagine nazionali del quotidiano cartaceo, fondato da Antonio Gramsci: L’Unità. Il titolo era: Io che preferisco i libri alle bmw facili. In quel pezzo parlavo della mia infanzia trascorsa a Casal di Principe, di tutti i lavori svolti tra un tentativo e l’altro di scrittura, di cosa significava per me vivere in Terra di Lavoro in quegli anni. Piacque così tanto ai giornalisti in carica all’Unità che decisero di affidarmi un blog fisso sul sito “ComUnità” del giornale, uno spazio dedicato ai miei racconti. Intitolai quello spazio-blog “Terra Nera, Mare Blu”.
L’avventura durò solo un paio di anni, ma tra un racconto e l’altro, in diverse occasioni, il quotidiano cartaceo ospitò altre mie storie. Accadeva grazie alla sensibilità di Stefania Scateni, Daniela Amenta ed Ella Baffoni: narratrici sensibili e competenti che avevo conosciuto per puro caso, inviando loro un mio racconto apparso su un blog letterario per cui scrivevo. Loro tre leggevano ogni mio racconto con professionalità e cura, dandomi le migliori indicazioni sulle strade possibili che dovevo percorrere per migliorare la mia scrittura.
Quanto accaduto in quel periodo grazie al quotidiano L’Unità, mentre per lavoro mi prendevo cura come badante part-time di una coppia di anziani di Succivo, mi diede la forza di non mollare e di credere in quello che facevo. Mi arrivavano lettere e telefonate da lettori che mi scoprivano in rete, o sul quotidiano che usciva in edicola. Tutto quel vocio attorno alle mie storie dava credibilità alle mie intenzioni: volevo ancora fare lo scrittore, immaginare storie usando le migliori parole scoperte in nuove e vecchie letture. Lo facevo nell’unico modo che mi era parso credibile: emulando mia madre. Lei, da giovane, aveva scritto per imitazione. L’avevo osservata, negli anni novanta, leggere con attenzione gli articoli sul quotidiano Il Mattino e su altre riviste da edicola come L’Espresso o Focus. Compieva quel gesto con ingenua semplicità, nel tentativo di imparare a memoria le parole difficili. Poi su un’agenda segreta, che io leggevo di nascosto a sua insaputa, riportava le frasi che inventava.
Lo faceva servendosi di parole scelte da quei giornali, unite ad altre sue formulazioni di frasi immaginate di sana pianta. Mia madre aveva frequentato per pochi anni la scuola, a causa di problemi familiari. Eppure aveva amato tanto leggere, arrivando a dedicare spazio alla lettura quasi ogni giorno della sua breve vita. Per me ha rappresentato, e rappresenta ancora oggi, la migliore guida spirituale e umana possibile. A lei ho dedicato molti dei miei racconti.