Appena esco dalla Casa Circondariale Giuseppe Salvia di Poggioreale mi sento una “cronista scalza”. Avviene così che una maestra di sostegno della scuola primaria si trasformi in una “scrittrice” perché, come per magia, le emozioni che vivo e mi vengono raccontate tra queste mura, fuoriescono di getto e diventano parole, storie e vite.
Eh sì! È in questo luogo così angusto, che trasuda dolore e solitudine, ma anche sogni e speranze, che ho riscoperto la mia passione per la scrittura, perché come cita Malala Yousafzai: «Un libro e una penna possono cambiare il mondo».
Così da circa otto anni, come volontaria dell’Associazione Liberi di volare, entro nel reparto San Paolo, sezione ospedalizzati, e conduco un laboratorio di scrittura creativa con i detenuti – e ci tengo a precisare “con”, perché è insieme ai miei “ ragazzi”, giovani e meno giovani, che vivo due ore di libertà.
La nostra piccola stanza con le grate di ferro viene adibita con molta fantasia a laboratorio di scrittura creativa. E in base alle nostre esigenze la trasformiamo in luogo di socializzazione dove discutere dei più svariati argomenti, in sala lettura dove ascoltare poesie e cantare canzoni, o addirittura in sala cinematografica con i nostri “potenti mezzi”, un proiettore e un computer e delle carte da giornale che oscurino le finestre.
I nostri incontri settimanali ci mettono in sintonia, creano relazioni, che in un luogo come questo sembrano impossibili. Si diventa una squadra, si leggono scritti e si condividono storie, a volte accompagnati da disegni o manufatti realizzati con materiali da riciclo. E da questa raccolta di storie, emozioni contrastanti, delusioni, sogni, progetti è stato pubblicato il nostro libro Liberi di raccontare oltre le sbarre, pubblicato dalla Iod edizioni. Un volume che cerca di far comprendere agli “uomini liberi” che non è giustizia dormire in dieci in una stanza, oziare per giornate intere, vedere i propri familiari un’ora a settimana se tutto va bene.
Un libro per far capire alla gente “perbene” quanto sia importante il ruolo della società in questo contesto così arido di relazioni, dove il termine rieducazione, reinserimento sociale e lavorativo resta pura utopia.
Vi lascio con le parole di Gennaro, uno degli storici partecipanti al laboratorio:
«Si dice che chi educa, chi insegna è chiamato letteralmente a lasciare il segno, a lasciare un segno nell’anima, in modo che questo funga da seme interiore grazie al quale potranno germogliare nuove consapevolezze, atteggiamenti, virtù e soprattutto a generare tracce interiori di pace».
E a Poggioreale sono tanti i volontari che sono “con” i detenuti, come ci ripete sempre Don Franco, cappellano del carcere, e direttore della Pastorale carceraria della Diocesi di Napoli, perché è solo così che si dà a un seme l’opportunità di germogliare.