Filippo La Porta, critico e saggista, è uno degli studiosi più apprezzati di Pier Paolo Pasolini. Ci piace riportare sul blog Cronisti scalzi un bellissimo articolo di Filippo La Porta sul fittissimo anno pasoliniano, ormai al termine, e una sua interessante riflessione alla domanda: In cosa consiste la radicalità di intellettuale “corsaro”, depotenziata nella ricezione attuale?
Ecco l’articolo integrale ricevuto da Filippo La Porta e pubblicato su Il Mattino del 14 ottobre 2022
La riflessione al termine del fittissimo anno pasoliniano possiamo tentare un veloce bilancio critico. Anzitutto: troppe celebrazioni agiografiche, troppi monumenti postumi eretti da chi se ne sente, in maniera abusiva, erede.
Eppure per rispettare Pasolini sul serio - il suo nucleo incandescente - bisognerebbe citarlo solo per darsi torto. È diventato un'icona pop - buona per i murales urbani - un santino inoffensivo celebrato a destra e a sinistra. In cosa consiste la sua radicalità di intellettuale “corsaro”, depotenziata nella ricezione attuale? Da un lato nell’essere sempre un fastidioso “tafano”, come volle definirsi Socrate, che punzecchia indifferentemente chiunque (perciò diverso da Saviano che, al netto della meritoria opera di denuncia, tende a rassicurare il suo pubblico); dall’altro nella disarmata trasparenza emotiva (ci mostra che il pensiero, come diceva Brecht, nasce sempre dal desiderio).
Proviamo a rileggere il pamphlet di Carla Benedetti «Pasolini contro Calvino» (riproposto, dopo 25 anni). La sua tesi di fondo - parola diretta contro ironia postmoderna, abbozzo non rifinito contro convenzionalità, e anche gettare il corpo nella lotta contro manierismo iperletterario - svolta con un puntiglio argomentativo degno di un filosofo analitico, ci appare obsoleta. Oggi sia Pasolini che Calvino stanno dalla stessa parte, pur con poetiche diverse, cioè dalla parte della letteratura come forma di conoscenza, entro un mondo in cui essa è ridotta a consumo tra gli altri, intrattenimento chic e status symbol. Due sopravvissuti, testimoni di un umanesimo perduto, con il loro amore struggente per il passato culturale, con il loro trattare ostinatamente i classici come nostri contemporanei, con la loro pietas verso tutto ciò che è debole ed effimero.

Né Pasolini ci sembra fuori dai recinti dell’istituzione letteraria, come enfatizza la Benedetti. Con quella istituzione ebbe rapporti ambivalenti, giocando con la sua stessa figura di artista maledetto e di successo, Partecipa tre volte al Premio Strega, senza vincerlo, e con Teorema (1968) tormenta gli amici con lettere in cui li scongiura di votarlo, dichiarando che se non avesse vinto si sarebbe sentito “isolato e abbandonato” (in quello stesso anno Calvino rifiuta il Viareggio perché svuotato, come tutti gli altri premi). Che avrebbero dovuto dire a proposito di “isolamento” due veri eretici senza famiglia come Bianciardi e Silone? Il primo, espatriato dalla Maremma in una Milano ostile, talento immenso messo ai margini di tutto (collaborò solo ad “ABC”, settimanale pruriginoso del tempo!), il secondo, grande affabulatore ammirato da Faulkner e Heinrich Böll, con la sua ruvidezza contadina estranea al galateo mondano, è scomparso perfino dai manuali letterari.
Pasolini non ha mai dubbi: solo certezze, assiomatiche, quasi teologiche. È profetico e predicatorio. Deve sempre credere in qualche idolo, dotato di potere salvifico: contadini friulani, ragazzi di vita, classe operaia del PCI, popolo del Terzo Mondo…. Calvino si mostra assai più laico e dubitativo. Discende dall'intelligenza scettica di Montaigne, mentre l’altro proviene dalle invettive di Savonarola. Né Calvino era privo del senso del tragico: il suo signor Palomar aspira a cercare un ordine nel gaddiano groviglio del mondo senza mai trovarlo. Anche la “impurità” di Pasolini - celebrata nel pamphlet - il carattere provvisorio di ogni sua opera, diventa spesso un alibi per la mancanza di ispirazione, per tante poesie brutte e velleitarie (ne parla Giorgio Manacorda in «Pier Paolo poeta», Castelvecchi, con limpidezza impietosa e insieme amorosa), e un pretesto per restare sempre sulla scena.
