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Mario Schiavone | Come sono diventato un libraio-scrittore

Perché i treni non viaggiano sul mare 

Per anni, addormentandomi dopo giornate molto pesanti, ho fatto sogni strambi: in uno di questi mi sono ritrovato in compagnia di Pinocchio. Il burattino antropomorfo mi afferrava per mano conducendomi nella sua città dei balocchi, luogo che scoprivo poi essere un’immensa Casal di Principe costruita con palazzi di smeraldi. Dalle finestre di quelle abitazioni mi salutava colui che, gridando a gran voce, si presentava come il sindaco della città: il Mago di Oz in persona. Quando abitavo a Torino, facendo sogni agitati, accadeva molto altro nei miei mondi onirici: mi trovavo al tavolino di un bar di una ipotetica New York, seduto in compagnia dello scrittore David Foster Wallace: brindavamo bevendo aglianico cilentano, prima di trascorrere un’amabile quantità di tempo indefinito a conversare in dialetto agropolese. Negli anni della mia permanenza a Roma, in una turbolenta notte fatta di incubi simili a film, ho sognato di finire in arresto con Fëdor Dostoevskij in persona: entrambi c’eravamo rifiutati di partire per andare in guerra, e nel fuggire a bordo di un trenino locale (quello che parte da Torpignattara e conduce alla Stazione ferroviaria di Roma Termini), finivamo scoperti da un gruppo di militari in borghese. Quei soldati subito ci ammanettavano e ci conducevano verso una galera allestita al binario 1 della stazione di Roma Termini. Forse ho ben presente perché ho fatto, e alcune notti faccio ancora oggi, sogni così eccentrici e visionari: ho sempre letto tante storie, sfogliando libri e fumetti con voracità autosuggestionante. Per questo motivo sono sicuro che neanche il buon medico (e geniale Scrittore) Anton Pavlovič Čechov, se fosse stato in vita, avrebbe potuto aiutarmi a guarire da questa mia patologia che posso definire, con una credibile diagnosi di mia invenzione “resistenza onirica dovuta a copiose letture”.

Del resto, mi dico, perché dovrei guarire? E in primo luogo: come ha avuto inizio tutto questo?

Prima che il vento si porti via tutto, vorrei raccontare di come sono diventato un libraio-scrittore; ma devo dirlo subito: non è una storia di facili successi o retorica meritocrazia, ma solo il ricordo in prosa di un tratto di vita (con tanti imprevisti e qualche colpo di scena) che alla soglia dei miei quarant’anni sento di dover condividere dopo l’invito del mio editore a parlare del mio percorso formativo. Voglio qui raccontarvi la mia versione dei fatti - che si attiene quanto più possibile a un racconto sincero - su come sono andate le cose tra i 17 e i 38 anni della mia vita: senza vivere la vita incredibile di uno dei fratelli Karamazov, né aver visto il mio corpo diventare una creatura immonda confinata in una stanza alla Gregor Samsa. Una precisazione è necessaria, la persona che sono oggi (il libraio-scrittore di questi miei 39 anni) non somiglia per niente al commesso di libreria (e aspirante scrittore) della vita passata che qui racconto. Nulla mi lega a quel Mario, per mia fortuna, in quanto ad approccio psicologico ed esistenziale.  

 

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Verso i diciassette anni, affascinato dallo stile ammaliante di un giornalista e scrittore italiano di cui leggevo ogni articolo sul mio quotidiano preferito di allora, decisi che sarei diventato un giornalista di professione. Vedevo in quella chiarezza espressiva - e in quella abile memoria enciclopedica - capacità fuori dal comune: volevo essere un uomo speciale anche io, diventare un individuo capace di usare le parole come un artigiano usava i suoi strumenti di lavoro. Mi illudevo di riuscirci in qualche modo. Per sostenere quel mio desiderio, in quel periodo, avevo comprato una penna stilografica dall’inchiostro speciale, alcuni quaderni di carta pregiata e un piccolo registratore a cassettine audio (di quelli usati dai giornalisti professionisti nei servizi giornalistici televisivi). Eppure, come mi ricordava G. il mio professore di storia e filosofia del liceo, per realizzare quel sogno servivano anche tanto studio scolastico e una dose sfacciata di fortuna. C’era, ed era palese e verificabile, una piena contraddizione in corso rispetto al mio status di studente ambizioso: pur essendo iscritto al liceo classico, non eccellevo in quasi nessuna materia. Il voto più alto che avevo ricevuto riguardava i miei temi scritti d’italiano, ma nelle altre materie faticavo a prendere giudizi vicini alla sufficienza. Talvolta neanche quei miseri 6 raggiungevo. “Per arroganza e pigrizia”, dicevano alcuni compagni presuntuosi. “Perché viene da una famiglia disagiata”, sentenziavano altri professori saccenti. Niente di più falso in entrambe le testimonianze. Per rispondere ai miei compagni di allora: sprecavo molto tempo senza dedicarlo allo studio scolastico, perché trascorrevo gran parte dei miei pomeriggi tra la ri-lettura giornaliera di quotidiani nazionali e la lettura di romanzi e fumetti. In sostanza: concentravo (e disperdevo) le energie facendo altro. Quanto ai miei docenti di allora, la risposta inequivocabile è una sola: a dirla tutta, pur essendo figlio di un operaio che era a capo di una famiglia che viveva una situazione complessa per la scomparsa improvvisa di mia madre, i soldi per comprare libri e fumetti da leggere non mi erano mai mancati. Inoltre, pur non essendo figlio di medico o farmacista, come la maggior parte dei miei compagni di classe, di certo non vivevo una condizione di povertà estrema.

Ma non era questo a rendermi fortunato per davvero. La mia dose di pura fortuna l’avevo scoperta incontrando due persone molto speciali: diventai in quegli anni amico di due validi librai che – in piena e caotica adolescenza - mi fecero innamorare sia della lettura come gesto di ribellione a un sistema, che dei buoni libri quali oggetti rivoluzionari dotati di un’anima. Lo confesso qui ed ora: mi innamorai del potere della grande letteratura dopo aver scoperto, grazie ad Ernesto e Antonella della Libreria Quarto Stato di Aversa, le pagine del primo romanzo classico che loro mi consigliarono di leggere. Sto parlando del libro Fahrenheit 451 scritto da Ray Bradbury. Leggere quel brillante autore mi fece sentire come un giovane pompiere in lotta per la salvezza dei libri. Vidi così nei professori di scuola (i quali, ovviamente, mi accusavano di perdere troppo tempo leggendo solo romanzi non consigliati a scuola) quell’Ordine del Male Costituito che m’impediva di coltivare il mio nascente e struggente amore per i mondi di carta e inchiostro. Sbagliavano loro (i professori) e sbagliavo io: non c’è guerra necessaria in una lotta tra adulto e ragazzo, quando si tratta di leggere pochi o tanti libri. Però, fatico a riconoscerlo, questo l’ho capito anni dopo, quando ero ormai grande e lontano dai banchi di scuola e alle prese con le domande di altri alunni lavorando come docente di scrittura creativa. Con lucidità oggi mi dico che se la vita da adolescente irrequieto era per me tutt’altro che facile, leggere molto in quegli anni dolorosi mi aiutò a coccolare meglio i miei sogni. Un sentimento che mi portò a credere in qualcosa di potente e intenso: l’emancipazione umana che, in alcuni casi, produce il fascino per la cultura.

 

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Quando conobbi i due librai, ero studente di liceo ad Aversa: avevo lasciato da poco Agropoli, per un trasferimento lavorativo di mio padre. In quello stesso periodo, verso i miei 16 anni, iniziai a scrivere articoli per un quotidiano casertano a tiratura regionale. C’era poco da inventare: andavo ogni pomeriggio in redazione e cercavo di riscrivere le notizie traendo spunto dai comunicati stampa (o dai lanci di agenzia) che arrivavano in redazione. Purtroppo, man mano che il tempo passava e miei articoli uscivano sul giornale, i voti che ricevevo a scuola peggioravano vorticosamente. Fu inevitabile la bocciatura a 18 anni e il mio rientro ad Agropoli: quando andai a vivere da solo e arrivò l’undici settembre 2001 avevo con me una piccola radio con cui ascoltavo le notizie, e un resistente zaino di tela colorata in cui custodivo i miei romanzi preferiti. Mi trovai un lavoro e andai a vivere in quella che era la casa agropolese della breve infanzia trascorsa con mia madre.

Nella cittadina cilentana, tra una portata da cameriere e l’altra, lavoravo in una pizzeria locale che oggi potremmo recensire on line con parole come: “bettola per gente affamata e maleducata”. Correvo da un tavolo all’altro, mentre personaggi conosciuti del luogo mi lanciavano pezzi di pane e sorsi schiumosi di birra per colpirmi al volo e deridermi quando mi cadevano i piatti dalle mani. C’era ben poco da ridere, ma in cuor mio mi dicevo: “non mollare, questo lavoro ti serve per vivere”. Del resto, voler essere autonomi del tutto dalla propria famiglia ha un costo, e questo lo imparai tra i tavoli di quella triste pizzeria. Compresi in quel pezzo di vita che essere davvero indipendente significava imparare a badare a se stessi su ogni fronte, oltre che ad avere le capacità di trovare un lavoro dignitoso con cui sbarcare il lunario. Furono mesi duri, ma non mollai: di sera, dopo il lavoro da cameriere, ascoltavo la mia radio per sapere cosa stava accadendo nel mondo e di giorno cercavo di fare due cose per me fondamentali: studiare per diplomarmi in tempo e trovare notizie da cui ricavare i materiali di cronaca nera su cui scrivere i pezzi per un quotidiano cartaceo di Salerno.

Continuare a scrivere mi dava speranza: al mio arrivo ad Agropoli mi ero proposto come collaboratore esterno a un noto quotidiano della provincia di Salerno, il caporedattore della mia area di appartenenza, pur annunciando in anticipo che il giornale non poteva pagarmi, aveva deciso comunque di dare spazio ai miei articoli di cronaca locale. Col tempo riuscii a raccogliere gli articoli necessari per avviare la pratica da giornalista pubblicista, ma a un mese dalla consegna del faldone con i miei articoli il cervello decise di giocare un brutto scherzo al cuore: decisi di punto in bianco di non iscrivermi più all’ordine come giornalista pubblicista. Ero tormentato da dubbi che mi tenevano sveglio a lungo la notte. Sentivo di aver appreso poco durante il mio apprendistato giornalistico, di non conoscere le fondamenta di quel mestiere. Per di più c’era una verità per me difficile da accettare, ma basata su un assunto evidente: i miei articoli di cronaca nera, pur essendo scritti grazie a rielaborazioni di fatti realmente accaduti, tendevano a somigliare a brevi racconti dagli esiti fantastici: osservavo il mondo reale, immaginavo storie e le trasfiguravo sulla carta. C’era più invenzione che realtà nel mio gesto. Scrivevo senza cercare di mirare alla professionalità giornalistica che apprezzavo nelle prestigiose firme, quelle di cui leggevo articoli e reportage sugli altri giornali. 

Cosa stava accadendo nella mia vita? Svolgevo, con miseri strumenti e tanta incoscienza, un mestiere di cui sapevo poco o nulla e al contempo ricoprivo un ruolo a me ancora più sconosciuto della professione di giornalista: l’aspirante scrittore. Continuando a lavorare come cameriere trascorsi l’intera estate del 2003 in una lunga pausa decisionale, per valutare al meglio le mie prospettive future. In quei giorni, di ricerca in ricerca sul web, scoprii che in Italia esisteva una riconosciuta scuola di scrittura creativa, dove insegnavano scrittori e registi, sceneggiatori e drammaturghi. Era la Scuola Holden di Torino. L’aveva fondata lo scrittore Alessandro Baricco, con altri addetti ai lavori. Per frequentarla bisognava cimentarsi in un lungo test di ammissione e, a seguire, sottoporsi a un colloquio dal vivo con dei docenti della scuola. Poi – con un po’ di fortuna utili a superare test e colloquio – sarebbe stato indispensabile trasferirsi in quel luogo mitologico che dalle mie parti tutti definivano con l’espressione: Il Grande Nord.

 

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Anche se ormai volevo darmi da fare a ogni costo per diventare scrittore, di fatto, rimanevo un operaio della ristorazione, con un diploma di scuola superiore in tasca e tanta paura del futuro. Per questa ragione ponevo al me stesso di allora infinite domande: mi avrebbero ammesso al master biennale della Scuola Holden? Quanto sarebbe costata l’iscrizione a scuola se non mi avessero concesso una borsa di studio? E quanto era grande Torino, rispetto ai paesi del sud da cui venivo io? Nei piccoli paesi, quando hai un dilemma e vuoi confrontarti con qualcuno, hai due figure cui rivolgerti: o il prete o il tuo medico di base. Con il prete del mio quartiere - in seguito alla prematura morte di mia madre - avevo avuto delle discussioni dai toni agitati. In ragione di quell’astio che nutrivo verso di lui e la sua chiesa, decisi di confidare i miei interrogativi sulla mia vita futura al medico di base. Così andai a trovarlo presso il suo studio medico e tutto d’un fiato gli dissi:

  • Voglio diventare uno scrittore, sto pensando di fare domanda di ammissione ai test di una famosa scuola di scrittura creativa che sta a Torino. Se mi prendono devo trasferirmi lì. Che ne pensi?

 Il medico C. mi guardò con attenzione, accennò un sorriso nervoso e rispose:

- I treni non viaggiano sul mare.

- Che vuoi dire?, commentai io.

Lui aggiunse:

  • Stai facendo sogni a occhi aperti. La tua è una scelta da miserabile. Dovresti frequentare una facoltà universitaria e diventare, ad esempio, un bravo ingegnere informatico. Non di certo inseguire sogni. Tuo padre è un operaio edile, tua madre era una contadina. Pensi davvero di poter diventare un giornalista o, peggio ancora, uno scrittore?

A 19 anni ero poco preparato alle certezze della vita, però avevo una visione del mondo alimentata da grandi sogni e desideri ambiziosi sui quali ero irremovibile e orgoglioso quasi come un certo Bartleby scrivano nella sua prima vita da impiegato.

- Se finisce male mi rimetto a fare il cameriere, conservo i miei indumenti da cameriere sempre stirati. Dovesse capitare di ricominciare a portare i piatti sarei pronto a farlo.

- I ristoranti del nord sono pieni di personale. Sicuro che da quelle parti hanno bisogno di te?

- Ci voglio provare, fa niente se non ci riesco.

 Risposi al medico, prima di salutarlo senza ringraziarlo.

Quel giorno stesso andai a casa e inviai una mail alla segreteria della Scuola Holden, per chiedere di poter sottopormi al test di ammissione. Pochi giorni dopo sostenni test e colloquio dal vivo e dopo non molto tempo ottenni risposta: era andata bene. Avevo superato la selezione ed era intenzione della dirigenza scolastica offrirmi una borsa di studio con cui sostenere il costo della retta del Master Biennale. Mi trasferii a Torino nel mese di settembre 2003, per andare a frequentare quella scuola di scrittura a cui tanto tenevo. Scoprii tra quelle mura colorate che per scrivere bene bisognava leggere tanto, ogni giorno. Libri e quotidiani, riviste scientifiche e articoli certificati pubblicati sul web: leggere doveva diventare per me aspirante scrittore il primo comandamento, se volevo provare a scrivere qualcosa di personale da mostrare ai lettori. Il master durò due anni, imparai tante cose dai più grandi scrittori, registi e drammaturghi italiani e stranieri che v’insegnavano. E trovai degli amici che ancora oggi mi stanno vicino, pur vivendo altrove fisicamente.

Strada facendo scoprii la ferma certezza che scrive sarebbe stata la mia attività principale, forse non un vero lavoro, ma un modo d’agire che faceva a patti col mondo esterno e mi dava ragion d’essere. Accettai quella verità fin dal giorno della consegna dei diplomi del master, consapevole che completato il percorso di studi alla Scuola Holden, pur di mantenere viva ogni mia intenzione creativa, avrei ripreso a fare mille lavori utili a sbarcare il lunario. E andò proprio così: rimasi a vivere a lungo a Torino e mi divisi tra le mie letture e i più svariati lavori: il magazziniere in un consorzio che distribuiva libri professionali per il Piemonte e la Valle d’Aosta, il portiere notturno in un hotel a tre stelle a Moncalieri, il cameriere in un ristorante pugliese di Piazza Statuto, lo strillone di giornali ai semafori di Corso Francia.

Mario Schiavone

(fine prima parte, continua…)

CRONISTI SCALZI

Cronisti scalzi è una collana di libri dedicata alla memoria del giovane giornalista napoletano, Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985.  

La collana ha l’ambizione di raccogliere le narrazioni dei giovani cronisti delle periferie e delle città, e di autorevoli voci del giornalismo d’inchiesta, impegnati a resistere allo strapotere delle mafie.

NELL'INFERNO DELLA CAMORRA DI PONTICELLI

Le pagine del libro di Luciana Esposito sono una narrazione fatta sul campo nell’inferno della camorra di Ponticelli, diventato quartiere simbolo di ogni città, rione, quartiere, piazza in cui vige la camorra. Le storie raccontate, e perfino la mimica di certi camorristi, sono identiche in ogni quartiere, come se si tramandassero attraverso una molecola specifica di Dna.

ROBERTA GATANI, CINQUANTASETTE GIORNI

In questo libro, Roberta Gatani, nipote di Paolo e Salvatore Borsellino, ripercorre ogni giorno trascorso tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992, un tempo fittissimo di lavoro per il Giudice che, sapendo di avere le ore contate, mise in campo tutte le proprie forze per fare luce sulla strage di Capaci.

FRANCESCO DANDOLO, TRACCE

Le pagine di questo volume rappresentano una missione ambiziosa, un passaggio obbligato per evitare che la cronaca comprima – a volte rozzamente, più in generale in modo confuso – la questione “epocale” delle migrazioni del nostro tempo in una vuota ossessione.