Salvo Vitale | Non tutte le antimafie portano in paradiso
Pubblicato il
By Iod
Cosa vuol dire fare antimafia senza esserne dei “professionisti”?
Anni fa, a Barcellona Pozzo di Gotto, Marco Travaglio ebbe a dire: “Magari ce ne fossero tanti professionisti dell’antimafia!” Ma si rivolgeva a chi dell’antimafia ha fatto una professione di vita, una scelta ideologica e non un mestiere. Le categorie dell’antimafia nate in questi ultimi anni sono tantissime: proviamo a individuarne qualcuna:
– L’antimafia di mestiere.C’è chi con la sigla dell’antimafia ci lavora, dà lavoro e vuole anche esprimere il principio che un’imprenditoria libera dalle catene della mafia è possibile. È il caso di prendersela con questi? Il riferimento riguarda le due maggiori associazioni antimafia, Addio Pizzo e Libera. Nel sito di Addio Pizzo troviamo vera e propria agenzia di viaggi per realizzare una forma di turismo civile o impegnato, con visite guidate nei “luoghi” dell’antimafia, pullman, soste per i pasti e per gli acquisti, alberghi. Una parte minima della quota è offerta, come contributo, ai titolari delle strutture visitate (per esempio il museo della Legalità di Corleone o la Casa Memoria di Cinisi).
Turisti a parte, esiste anche un progetto di Addio Pizzo sulle visite guidate delle scolaresche a Palermo: i prezzi variano da sette a dieci euro a testa, a seconda del numero e dell’itinerario. Per esempio, cento alunni che pagano sette euro a testa (pullman esclusi), frutteranno 700 euro che, solo per pagare le prestazioni di una guida, sembrano troppi.
Su Libera si possono fare infinite altre illazioni, giustificabili nel momento che ormai si tratta di una struttura che coinvolge circa duemila associazioni che non è facile tenere sotto controllo. Il bilancio 2010 (sul sito) a pareggio è di 3.047.710: la maggior parte delle entrate è alla voce “Istituzioni”, riferendosi certamente a progetti finanziati di educazione alla legalità nelle scuole. Il costo dei prodotti biologici (che sembrerebbe a prima vista incompatibile col mercato) mediamente risulta molto alto perché comprende il sostegno alle coop che agiscono in territorio difficile per portare avanti il progetto rivoluzionario di un’economia che può fare a meno della protezione mafiosa.
Una sottovoce a questo tipo di antimafia è quella che Telejato ha chiamato “l’antimafia in pizzeria”, suscitando le ire di Giovanni Impastato che ogni anno organizza, in uno spazio continuo alla sua pizzeria, alcune iniziative fatte di relazioni su temi specifici. Come poi ha precisato lo stesso Pino Maniaci, “Il problema economico, ci rendiamo conto, vuole anche il suo spazio: anche se con i compagni di Peppino non è mai successo, nessuno si scandalizza se qualcuno dà un contributo per la gestione o per le iniziative. Ma se tutto questo diventa un “tour di turismo civile e responsabile”, con apposito pacchetto di viaggio, pullman, luoghi da visitare e contributo da versare, si va un po’ oltre il fare antimafia e basta”.
– L’antimafia religiosa. È praticata in gran parte da scout che trovano una struttura, spesso religiosa, dove poter dormire, mangiare, pregare, e girano varie situazioni per apprendere qualcosa su realtà che spesso non conoscono se non per sentito dire. I riferimenti obbligati sono le figure di don Puglisi o di don Diana, martiri: va bene se si ha l’accortezza di distinguere tra una Chiesa che non ha mai preso le distanze dalla mafia, o si è lasciata inquinare, e una chiesa militante dove singoli preti (don Ciotti, don Gallo ecc.) hanno preso forti posizioni di condanna e di distanza. Qualche difficoltà nasce dall’attribuzione, fatta dall’Espresso di “Papa antimafia” a Ratzinger, per il solo fatto di avere espresso parere favorevole alla richiesta di beatificazione di padre Puglisi. È davvero troppo poco e non pare che finora papa Benedetto si sia distinto per avere espresso un chiaro anatema come quello gridato dal suo predecessore Wojtyla nella Valle dei templi, nel 1993.
– L’antimafia di parata. È la più praticata: ormai è d’obbligo come minimo partecipare, per l’anniversario della morte della vittima, a una messa in memoria, cui sono invitati gli uomini in divisa, i parenti, qualche giornalista con telecamera, le autorità, compreso il sindaco, e altri rappresentanti istituzionali. Per i rappresentanti delle forze dell’ordine la parata può anche essere esteriorizzata con il trombetiere che suona il “silenzio”, mentre tutti tacciono, assumono una faccia triste, e i militari presenti si schierano con la mano destra aperta a taglio sulla fronte per il saluto militare. Ultimamente, prima con Rita Atria e poi con Rostagno, sta venendo in uso una piccola cerimonia laica al cimitero, davanti alla tomba del caduto. In altri casi si dà luogo a un capannello per scoprire una lapide o una targa di intestazione di una strada, oppure a un corteo: quello che ha avuto continuità e partecipazione numerosa, e contenuti, è quello che ogni 9 maggio si snoda da Terrasini a Cinisi per ricordare Peppino Impastato.
Strettamente collegata è “l’antimafia dei convegni”, con relatori più o meno importanti latori di testimonianze personali, oppure esperti che si dilungano in dotte relazioni bla-bla, con linguaggio incomprensibile e certamente non rapportato ai livelli di preparazione di chi ascolta; il tutto con biglietto, albergo e pranzo prepagati, preceduto da un manifesto, da una locandina e dall’indispensabile presenza dell’operatore televisivo, con relativa intervista. Difficile constatare che, chi esca dopo avere ascoltato, possa anche avere interiorizzato qualcosa che lo porti ad operare con più coscienza su questo difficile terreno. Per non parlare delle megaparate organizzate in occasione del 23 maggio, per ricordare Falcone, con nolo di navi, distribuzione di magliette, borsette, berrettini ed altri gadget e allegri schiamazzi, il tutto con spese alte.
– L’antimafia scolastica. Da alcuni anni i piani dell’offerta formativa prevedono progetti di “educazione alla legalità”, approvati dal Collegio dei docenti e finanziati, in parte con le magre risorse delle scuole, in parte con i fondi regionali (POR), nazionali (PON) o europei (FERST). Si tratta di presentare articolati progetti con formulari precisi, dettagliato utilizzo delle somme, da giustificare al centesimo, e che in parte vengono distribuite tra ore da pagare ai docenti e non docenti, spese per l’intervento di eventuali relatori e formatori, spese per pubblicizzare l’evento, spese per la costruzione di un “prodotto”, da allegare alle note giustificative.
Negli interventi finali la scuola assicura un pubblico, quello degli studenti, felici di uscire per qualche ora dalla loro aula e curiosi di ascoltare qualcosa di diverso: sui docenti ci sarebbe da fare un discorso a parte, considerato che alcuni approfittano di questi momenti per “evadere”, magari andare a fare la spesa o sistemare il registro, altri, ma solo per far credere che lavorano, sporgono forti lamentele al preside, perché vengono sottratte loro “ore di lezione”, altri ancora sparano giudizi feroci, come: ”I ragazzi sono stanchi di sentir parlare di mafia”, oppure: “È stato tutto un momento di indottrinazione politica di sinistra”. Oppure, ma questo l’ha detto anche il sindaco di Trapani, che “a scuola non bisogna parlare di mafia, per non mettere paura agli studenti, ma meglio parlare di altro, di gastronomia per esempio”.
Non ci occuperemo di costoro, ma del fatto che non basta e non può bastare una conferenza a formare sensibilità e coscienze antimafia. Anche l’articolazione dei singoli progetti, rivolti per lo più a un’utenza di una ventina di ragazzi, non serve, se produce qualche cartellone, qualche coretto con l’immancabile “I cento passi” dei Modena o “Pensa” di Fabrizio Moro, o ancora qualche filmato con immagini prese da Internet. Tali progetti hanno qualche possibilità di risultato se diventano patrimonio e obiettivo di tutti i docenti, momento centrale dei loro piani di lavoro, da coordinare con i contenuti della disciplina che si insegna, in linea con quanto portato avanti dagli altri docenti. E, a parte la buona volontà di pochissimi, moltissimi preferiscono non occuparsi della questione. In ogni caso, anche queste forme spesso improvvisate del “fare antimafia” vanno incoraggiate e messe in atto, perché, diceva Gesualdo Bufalino, “Per sconfiggere la mafia ci vorrebbe un esercito di maestri”.
– L’antimafia sociale.La definizione è nata a Cinisi, con il Forum Sociale Antimafia, nel 2001, e si riferisce alla scelta militante di essere costantemente presenti in tutti i momenti di lotta che nascono sul territorio, di appoggiarli, di considerarli come momenti di costruzione di una “resistenza” al sistema mafioso, sull’esempio di quella che era la lotta di resistenza al nazifascismo. È una scelta d’impegno e di sacrifici, perchè implica dedizione, convinzione e lavoro sociale, oltre che politico. Si tratta di dare una precisa direzione, alla propria vita e a quella delle persone con cui lavori, attraverso la denuncia, la manifestazione, se è necessario l’occupazione: come con la partecipazione alle lotte degli operai della Fiat di Termini, ai No-Tav in Val d’Aosta, al neonato movimento No Muos contro le antenne Usa a Niscemi, ecc. Anche la costante presenza nelle scuole o nelle associazioni che organizzano momenti d’impegno civile è un passaggio di questa antimafia militante.
– L’antimafia informativa. Come al solito c’è un’informazione di massa, “ufficiale”, di ciò che è consentito dire, e un’informazione periferica, ristretta, difficile da diffondere, priva di mezzi, ma ricca d’impegno, che stenta a farsi spazio. La prima ha a disposizione i grandi mezzi e le grandi testate: è quella che costruisce eroi, che nasconde criminali politici o ne addita solo alcuni al pubblico ludibrio, in rapporto alle indagini dei magistrati e delle forze dell’ordine o in relazione alle scelte dello schieramento politico per cui lavora il giornalista. In questo contesto tutto sembra in ordine, pare che i principali mafiosi siano stati arrestati e che la mafia stia finendo; non si parla, se non di straforo dei fili che legano onorevoli e camorristi, impresari e forze istituzionali corrotte. Insomma, il solito mondo dorato dove basta individuare qualche responsabile alla Cuffaro, cui far pagare tutto, affinchè tutto resti per com’è sempre stato.
L’altra antimafia mediatica è quella che si serve dei volantini, del retro bianco dei manifesti per scrivere un messaggio, di qualche scalcagnata radio, come lo era Radio Aut, e di qualche altra scalcagnata emittente televisiva com’è Telejato. Il metodo è quello di Danilo Dolci: abituare la gente ad acquistare un modo di pensare autonomo, a rendersi conto che si trova in un insieme di situazioni che li usa come vittime, come consumatori, come elettori, come destinatari finali di progetti costruiti non per essere al servizio della comunità ma per autoaffermazione e arricchimento. Vent’anni di berlusconismo hanno fatto il deserto e creato generazioni di giornalisti leccaculo, mentre si studiano nuovi meccanismi di controllo, soprattutto sulla pubblicazione delle intercettazioni.
C’è voluto il caso del ventilato carcere per Sallusti per porre all’attenzione un problema vecchio, la diffamazione a mezzo stampa e le sue conseguenze penali. Il tutto con l’avvertenza che spesso si tratta di persone insospettabili e che sbattere i loro visi in prima pagina può provocare imprevedibili reazioni.
Infine una straordinaria poesia di Salvo Vitale
PAROLE
Siamo tutti bravi,
facciamo le manifestazioni,
ci mobilitiamo per ricordare i morti,
sì, la memoria è necessaria,
un popolo senza memoria
è un popolo senza storia,
e blablabla,
sapienti architetture di parole,
con fiocchetti, analisi,
interventi scritti, applausi,
giacca e cravatta sotto il sole torrido,
apprezzamenti per i successi conseguiti,
parate disparate,
presenza d’obbligo delle forze dell’ordine,
strette di mano, baci, targhe,
e più recentemente alberi,
rassegne dei tipi più squallidi,
in rappresentanza delle istituzioni,
il presidente, il deputato, il sindaco, gli assessori,
il capitano, l’arciprete, i parenti,
apoteosi del cerimoniale,
passeggiate sul sangue dei morti,
scoramenti, scornamenti,
se ci va lui non ci vengo io,
verifiche dei partecipanti,
la città che non c’era,
Peppino è vivo,
non certo tra i compagni a pugno chiuso,
perché Peppino è morto e non lotta più insieme a noi,
Paolo vive,
non certo tra i camerati a braccio alzato,
perché Paolo è morto nel caldo di luglio,
assieme ad altri di cui possediamo l’elenco
e ad altri ancora che non ne fanno parte,
e poi, dopo la morte l’imbalsamazione,
la tumulazione nel pantheon dell’immobilità,
la cera nelle orecchie per non sentire le urla,
lo stupore, l’angoscia del mare della morte
che si chiude sulle loro teste
per sempre, dentro uno spazio senza tempo.
L’applauso è un addio che ci distanzia
dalla condivisione delle loro scelte.
Più amara l’apparenza dell’impegno
che nasconde un qualche interesse.
“Noi ci dobbiamo ribellare…”
E come?
Chi si permette di dirlo è un sovversivo.
Cinisi 11-07-2007
CRONISTI SCALZI
Cronisti scalzi è una collana di libri dedicata alla memoria del giovane giornalista napoletano, Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985.
La collana ha l’ambizione di raccogliere le narrazioni dei giovani cronisti delle periferie e delle città, e di autorevoli voci del giornalismo d’inchiesta, impegnati a resistere allo strapotere delle mafie.
NELL'INFERNO DELLA CAMORRA DI PONTICELLI
Le pagine del libro di Luciana Esposito sono una narrazione fatta sul campo nell’inferno della camorra di Ponticelli, diventato quartiere simbolo di ogni città, rione, quartiere, piazza in cui vige la camorra. Le storie raccontate, e perfino la mimica di certi camorristi, sono identiche in ogni quartiere, come se si tramandassero attraverso una molecola specifica di Dna.
ROBERTA GATANI, CINQUANTASETTE GIORNI
In questo libro, Roberta Gatani, nipote di Paolo e Salvatore Borsellino, ripercorre ogni giorno trascorso tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992, un tempo fittissimo di lavoro per il Giudice che, sapendo di avere le ore contate, mise in campo tutte le proprie forze per fare luce sulla strage di Capaci.
FRANCESCO DANDOLO, TRACCE
Le pagine di questo volume rappresentano una missione ambiziosa, un passaggio obbligato per evitare che la cronaca comprima – a volte rozzamente, più in generale in modo confuso – la questione “epocale” delle migrazioni del nostro tempo in una vuota ossessione.