Giancarlo Siani si trovò ad affrontare, nella sua attività di giovanissimo cronista de «Il Mattino», di redattore della rivista della Cisl «Il lavoro nel Sud» e di collaboratore dell’«Osservatorio sulla camorra» diretto da Amato Lamberti, due grandi questioni sociali che interessavano in quegli anni Napoli e la sua area metropolitana: la spietata crisi industriale, che comportava la scomparsa di interi comparti produttivi, e l’affermarsi dei clan di camorra come mai era avvenuto nel passato. Due questioni non così disconnesse come si potrebbe pensare o come all’epoca si percepiva. Giancarlo era alle prime armi della sua professione e riservò alle due questioni un interesse professionale e umano davvero notevoli.
Questo libro, con una selezione dei suoi articoli sul tema del “lavoro”, ci mostra come Siani avesse chiaro il nesso tra questione economico-produttiva, questione urbana e questione criminale molto di più di quanto si potesse immaginare. Il Novecento è stato il secolo dello sviluppo industriale di Napoli e al tempo stesso del suo tramonto. Cominciato con la legge speciale del 1904 e con l’entrata in funzione dell’Ilva nel 1911 sulla spiaggia di Bagnoli, e poi negli anni Trenta dell’Eternit e della Montecatini, tale strategia sviluppo si basava sull’innesto della grande industria sul tessuto urbano ad est e a ovest della città. Attorno a quest’area si erano aggregate altre attività di piccole e medie imprese in diversi settori, compreso il lavoro a domicilio nella produzione di guanti e borse, che con alterne vicende avevano determinato una crescita a Napoli e sulla costa di una vocazione alla produzione manifatturiera. Quella costa a sud della metropoli aveva già conosciuto nell’Ottocento uno sviluppo industriale attorno alle commesse per l’esercito e all’industria della pasta a Torre Annunziata e alla cantieristica navale a Castellammare di Stabia, mentre nelle altre aree tra Frattamaggiore e S. Giovanni si erano sviluppate attività legate alla trasformazione di prodotti agricoli (tabacco, canapa, pomodoro ecc.). A tale apparato si aggiungerà poi nel secondo dopoguerra quello costruito con i consorzi di sviluppo industriale voluti dalla Cassa del Mezzogiorno (soprattutto nell’area a nord di Napoli, tra Arzano e Casoria) gli ulteriori massicci investimenti delle Partecipazioni Statali e agevolazioni pubbliche culminati nella nascita dello stabilimento di Pomigliano d’Arco dell’Alfa Sud e dell’Alenia, e con nuove risorse investite su Bagnoli.
Ma all’inizio degli anni Ottanta Napoli, da città industriale, anzi da terza città industriale d’Italia, conoscerà una crisi dell’apparato produttivo che non ha confronti con altre realtà. Una vera e propria devastazione. Il terremoto del 23 novembre del 1980 la coglierà nel pieno della crisi dei precedenti assetti produttivi e la spingerà a trovare una risposta di nuovo nel ciclo edilizio. Il ventennio terribile per la città (1975-1995) comincia con la crisi petrolifera, prosegue con il ridimensionamento delle Partecipazioni Statali e la chiusura definitiva della Cassa del Mezzogiorno. A determinare la crisi è principalmente il ritiro delle Partecipazioni Statali dall’economia. Napoli, che ha un apparato industriale storicamente dipendente dal capitale pubblico, ne sarà travolta. Nel giro di pochi anni chiudono o si trasferiscono grandi aziende e grandi stabilimenti in tutta l’area metropolitana, compresa dunque parte della provincia di Caserta e di Salerno. Il censimento del 1981 lo registra impetuosamente: 20.000 addetti in meno rispetto al 1971 e la perdita di 1200 imprese. Tra Napoli e provincia chiudono il 15% degli stabilimenti e l’occupazione industriale cala del 26%. Solo in città si perdono 15.416 addetti all’industria. La crisi è spaventosa anche nelle zone di recente industrializzazione (appunto le zone dei consorzi industriali) e nelle cittadine di antica industrializzazione quali Torre Annunziata e Castellammare di Stabia. Dopo circa un secolo di crescita industriale (sempre insuffuciente, è bene ripeterlo, rispetto alle esigenze lavorative di centinaia di migliaia di sottoproletari) la città partenopea perde la sua dimensione di metropoli caratterizzata dalla produzione di fabbrica, senza che si sia lavorato a livello nazionale e locale per un destino post-industriale, come avverrà in seguito per Milano, Torino e Genova.