Isaia Sales | Il contesto storico Cronache del Novecento industriale (1980-1985)

Isaia Sales | Il contesto storico Cronache del Novecento industriale (1980-1985)

Giancarlo Siani si trovò ad affrontare, nella sua attività di giovanissimo cronista de «Il Mattino», di redattore della rivista della Cisl «Il lavoro nel Sud» e di collaboratore dell’«Osservatorio sulla camorra» diretto da Amato Lamberti, due grandi questioni sociali che interessavano in quegli anni Napoli e la sua area metropolitana: la spietata crisi industriale, che comportava la scomparsa di interi comparti produttivi, e l’affermarsi dei clan di camorra come mai era avvenuto nel passato. Due questioni non così disconnesse come si potrebbe pensare o come all’epoca si percepiva. Giancarlo era alle prime armi della sua professione e riservò alle due questioni un interesse professionale e umano davvero notevoli.

Questo libro, con una selezione dei suoi articoli sul tema del “lavoro”, ci mostra come Siani avesse chiaro il nesso tra questione economico-produttiva, questione urbana e questione criminale molto di più di quanto si potesse immaginare. Il Novecento è stato il secolo dello sviluppo industriale di Napoli e al tempo stesso del suo tramonto. Cominciato con la legge speciale del 1904 e con l’entrata in funzione dell’Ilva nel 1911 sulla spiaggia di Bagnoli, e poi negli anni Trenta dell’Eternit e della Montecatini, tale strategia sviluppo si basava sull’innesto della grande industria sul tessuto urbano ad est e a ovest della città. Attorno a quest’area si erano aggregate altre attività di piccole e medie imprese in diversi settori, compreso il lavoro a domicilio nella produzione di guanti e borse, che con alterne vicende avevano determinato una crescita a Napoli e sulla costa di una vocazione alla produzione manifatturiera. Quella costa a sud della metropoli aveva già conosciuto nell’Ottocento uno sviluppo industriale attorno alle commesse per l’esercito e all’industria della pasta a Torre Annunziata e alla cantieristica navale a Castellammare di Stabia, mentre nelle altre aree tra Frattamaggiore e S. Giovanni si erano sviluppate attività legate alla trasformazione di prodotti agricoli (tabacco, canapa, pomodoro ecc.). A tale apparato si aggiungerà poi nel secondo dopoguerra quello costruito con i consorzi di sviluppo industriale voluti dalla Cassa del Mezzogiorno (soprattutto nell’area a nord di Napoli, tra Arzano e Casoria) gli ulteriori massicci investimenti delle Partecipazioni Statali e agevolazioni pubbliche culminati nella nascita dello stabilimento di Pomigliano d’Arco dell’Alfa Sud e dell’Alenia, e con nuove risorse investite su Bagnoli.

Ma all’inizio degli anni Ottanta Napoli, da città industriale, anzi da terza città industriale d’Italia, conoscerà una crisi dell’apparato produttivo che non ha confronti con altre realtà. Una vera e propria devastazione. Il terremoto del 23 novembre del 1980 la coglierà nel pieno della crisi dei precedenti assetti produttivi e la spingerà a trovare una risposta di nuovo nel ciclo edilizio. Il ventennio terribile per la città (1975-1995) comincia con la crisi petrolifera, prosegue con il ridimensionamento delle Partecipazioni Statali e la chiusura definitiva della Cassa del Mezzogiorno. A determinare la crisi è principalmente il ritiro delle Partecipazioni Statali dall’economia. Napoli, che ha un apparato industriale storicamente dipendente dal capitale pubblico, ne sarà travolta. Nel giro di pochi anni chiudono o si trasferiscono grandi aziende e grandi stabilimenti in tutta l’area metropolitana, compresa dunque parte della provincia di Caserta e di Salerno. Il censimento del 1981 lo registra impetuosamente: 20.000 addetti in meno rispetto al 1971 e la perdita di 1200 imprese. Tra Napoli e provincia chiudono il 15% degli stabilimenti e l’occupazione industriale cala del 26%. Solo in città si perdono 15.416 addetti all’industria. La crisi è spaventosa anche nelle zone di recente industrializzazione (appunto le zone dei consorzi industriali) e nelle cittadine di antica industrializzazione quali Torre Annunziata e Castellammare di Stabia. Dopo circa un secolo di crescita industriale (sempre insuffuciente, è bene ripeterlo, rispetto alle esigenze lavorative di centinaia di migliaia di sottoproletari) la città partenopea perde la sua dimensione di metropoli caratterizzata dalla produzione di fabbrica, senza che si sia lavorato a livello nazionale e locale per un destino post-industriale, come avverrà in seguito per Milano, Torino e Genova.

 

La perdita dell’identità industriale non avverrà senza sconvolgimenti sulla società. Sta di fatto che la stessa Bagnoli, il quartiere per antonomasia delle attività legate all’industria, mai interessata nel passato a fenomeni delinquenziali stabili né tantomeno a presenze di clan camorristici fino agli anni Ottanta, comincia a conoscere la presenza di malavita organizzata. Dalla chiusura dell’Italsider, nella zona occidentale si impennano gli omicidi, i tentati omicidi, i ferimenti, le estorsioni, le aggressioni, le intimidazioni: nulla sarà come prima. Stessa sorte per l’area a est di Napoli, S. Giovanni a Teduccio (anch’essa fortemente connotata dagli stabilimenti sorti con le agevolazioni della legge speciale del 1904 e dal lavoro operaio), dove i clan camorristici domineranno dopo lo smantellamento delle attività produttive. Così a Torre Annunziata, a Castellammare di Stabia e a Pozzuoli. È del tutto evidente come la perdita della vocazione industriale di queste città si accompagni immediatamente a un dominio delle attività illegali e poi camorristiche, che prima pure esistevano ma erano contenute dalla mentalità operaia dei diritti e dei doveri e dalla produzione e circolazione della ricchezza industriale. Sta di fatto che la camorra moderna nasce nella metà degli anni Settanta del Novecento proprio a cavallo della crisi industriale di Napoli e della sua area metropolitana. È con questa dimensione del problema che i sindacati e le forze politiche dovranno misurarsi. In questo periodo di trapasso, di cui il terremoto del novembre 1980 segnerà uno spartiacque, verrà di nuovo fuori l’idea di sopperire allo sviluppo industriale in crisi con l’economia del mattone. E così i cospicui finanziamenti pubblici del post-terremoto drogano l’economia della provincia partenopea (e del resto della regione) permettendo di ripuntare sulla rendita urbana come propellente dello sviluppo. La scelta della “superproduzione edilizia”, come la definirà Antonio Cederna, stimolerà, altresì, interessi e appetiti sfociati nella tangentopoli napoletana e nelle relazioni pericolose con la camorra, per la prima volta protagonista in città e in provincia anche nel campo dell’economia legale. E ancora una volta si confronteranno le due strategie tentate nel corso del secolo passato: lo sviluppo industriale, immaginato da Nitti attorno al rilancio di un porto capace di esportare le produzioni napoletane e imbastire traffici con il mondo, e il volano dell’edilizia, come sostitutivo del mancato apporto industriale anche a costo di consumare suolo e aria e compromettere le bellezze storiche dell’area. Una strategia quest’ultima che dal Risanamento di fine Ottocento a Lauro, fino a Pomicino si è mantenuta inalterata e alternativa nella sua essenza alla prima. Ma fare dell’edilizia il principale motore economico di Napoli e della sua provincia lascerà impronte indelebili sulla struttura urbana e sulla qualità della vita e dei servizi, così come sul favorire una dimestichezza con ambienti criminali. È soprattutto attraverso l’edilizia, infatti, che la camorra entra nell’economia legale. L’area napoletana, quella casertana e salernitana negli anni Ottanta diventano quasi simili in questi legami alla Palermo degli anni Sessanta. La stessa provincia di Avellino, storicamente lontana da insediamenti criminali, sarà al centro di diverse vicende che vedono protagonisti alcuni clan camorristici. In Campania, dunque, nella seconda metà degli anni Settanta è venuto a compimento il disastro urbano dell’area metropolitana di Napoli. Questo disastro ha preceduto il terremoto, che ne ha solo accentuato i risvolti negativi ma non li ha determinati del tutto. Non si può comprendere molto della camorra contemporanea in genere né della camorra cutoliana di quegli anni se non si getta uno sguardo su questa realtà, che è il prodotto fisico della modernizzazione che ha interessato la fascia costiera e la pianura campana tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta. Parliamo del formarsi di un’area metropolitana attorno a Napoli, di 3 milioni e mezzo di abitanti, con alcuni comuni della provincia di Caserta e di Salerno. Un’area metropolitana povera dove si espandono a raggiera tutti i problemi irrisolti della metropoli. Si crea così un’impressionante continuità urbanistica, senza nessuna interruzione per decine e decine di chilometri. Si è sempre giustamente esaltato il film Mani sulla città di Francesco Rosi sulla speculazione edilizia laurino-democristiana di Napoli, ma si è trascurato di parlare dell’effetto periferia di quegli anni, cioè la costruzione di città-dormitorio attorno a Napoli, prive di tutto, dei più elementari servizi, di una identità di città. Si è costruita una vera e propria corona di spine, come avrebbe detto Nitti all’inizio del secolo. Cittadine di grandi tradizioni e bellezze diventano città-mostro; una delle coste più belle del mondo viene completamente devastata. È indubbio che la camorra moderna è anche la disgregazione prodotta da questo particolare disastro urbano. Un’unica grande periferia costruita in quindici anni da Aversa fino a Battipaglia; una crescita urbana che non ha prodotto forme superiori di civiltà o di crescita della società; una rapida e violenta trasformazione soprattutto nelle città medie, tutte uguali, una dietro l’altra, senza confini riconoscibili, dove non esistono condizioni e spazi di vita collettiva, o una superiore aggregazione sociale. Il formarsi di tante città medie, senza storia e senza radici, ha portato con sé una moderna barbarie. Sono state le città medie le fabbriche della malavita organizzata, addirittura più di Napoli stessa. Non c’è comune di quest’area metropolitana dove non si registrino omicidi. Le città medie sono caratterizzate da un’instabilità di ceti, di figure sociali, di economia, una società dove tutto si muove e niente si consolida. È come se la camorra avesse monopolizzato la violenza prodotta da questo stato di cose. In questa assenza di città, in questi grandi flussi di mobilità, di fluttuazioni improvvise e imprevedibili, di instabilità economica e sociale, la camorra è stata forse un elemento di stabilità, perverso ma di stabilità, un punto di aggregazione, perverso ma di aggregazione. Si prenda il caso di Torre Annunziata, che è emblematico nell’intreccio tra scempio edilizio, crisi industriale e sostituzione delle attività produttive con quelle illegali e criminali. Era definita la Manchester del Sud, e non senza ragione. Alle spalle il fiume Sarno che le offriva l’energia idroelettrica per far girare le pale dei suoi mulini e pastifici e al tempo stesso alimentare i macchinari degli oltre 60 stabilimenti industriali (a partire dalla Reale Fabbrica d’Armi); davanti il porto dove affluivano i grani e le altre merci da trasformare con un traffico all’inizio del Novecento di 400 piroscafi e mille velieri, con 2000 facchini al lavoro stabilmente che si affiancavano a migliaia e migliaia di operai nelle fabbriche. Torre Annunziata era la cittadina industriale e commerciale per antonomasia. E per un periodo venne chiamata “città-pastificio”, prima ancora di Gragnano. Poi, dopo la crisi del settore nel secondo dopoguerra, accompagnata negli anni successivi dalla crisi degli altri settori produttivi, Torre Annunziata si trasforma in pochi decenni nella città per antonomasia del contrabbando di sigarette. Su di una popolazione di circa 60.000 abitanti, ben 7.000 persone erano dedite al traffico di sigarette a vario titolo. La “fabbrica del contrabbando” si affianca e poi sostituisce le vere fabbriche, fino ad arrivare alla dismissione di quasi tutte le industrie presenti nel decennio precedente. Poi ci sarà il terremoto nel 1980 che avrà l’effetto di acuire tutte le lacerazioni sociali che la città già stava conoscendo. Crolla no più di 100 edifici e più di 800 saranno lesionati. E accanto al contrabbando crescerà il ruolo economico del traffico di droga (Torre sarà una delle piazze di spaccio più importanti del Sud prima che questo ruolo venga svolto da Scampia) e della speculazione edilizia. Sigarette, droga ed edilizia sostituiranno il vecchio apparato industriale della città. Più di cento omicidi caratterizzeranno il periodo tra gli anni Settanta e il primo decennio del Duemila. È in questo quadro che si inserisce l’omicidio di Giancarlo Siani, che provava nei suoi articoli a leggere, ricostruire e interpretare le trame criminali che si facevano strada sulle macerie dello sviluppo produttivo dell’antica città operaia. Giancarlo Siani si è trovato a incrociare quel particolare periodo storico, in una città protagonista di quella sostituzione di mezzi di sostentamento, e ne è stato testimone e vittima. Ma con i suoi articoli ci ha lasciato un avvertimento che non possiamo più trascurare: il lavoro non serve solo a sostenere materialmente la vita delle singole persone e delle loro famiglie ma dà una certezza dei propri diritti e una predisposizione ai doveri civici fondamentali in zone dove sulla sopraffazione dei diritti e sull’annullamento dei doveri si basa quella che semplificando chiamiamo la cultura camorristica.

CRONISTI SCALZI

Cronisti scalzi è una collana di libri dedicata alla memoria del giovane giornalista napoletano, Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985.  

La collana ha l’ambizione di raccogliere le narrazioni dei giovani cronisti delle periferie e delle città, e di autorevoli voci del giornalismo d’inchiesta, impegnati a resistere allo strapotere delle mafie.

NELL'INFERNO DELLA CAMORRA DI PONTICELLI

Le pagine del libro di Luciana Esposito sono una narrazione fatta sul campo nell’inferno della camorra di Ponticelli, diventato quartiere simbolo di ogni città, rione, quartiere, piazza in cui vige la camorra. Le storie raccontate, e perfino la mimica di certi camorristi, sono identiche in ogni quartiere, come se si tramandassero attraverso una molecola specifica di Dna.

ROBERTA GATANI, CINQUANTASETTE GIORNI

In questo libro, Roberta Gatani, nipote di Paolo e Salvatore Borsellino, ripercorre ogni giorno trascorso tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992, un tempo fittissimo di lavoro per il Giudice che, sapendo di avere le ore contate, mise in campo tutte le proprie forze per fare luce sulla strage di Capaci.

FRANCESCO DANDOLO, TRACCE

Le pagine di questo volume rappresentano una missione ambiziosa, un passaggio obbligato per evitare che la cronaca comprima – a volte rozzamente, più in generale in modo confuso – la questione “epocale” delle migrazioni del nostro tempo in una vuota ossessione.